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American Sniper - Recensione

31/12/2014 | Recensioni |
American Sniper - Recensione

L’America e i suoi eroi, l’America e “il” suo eroe. Ecco il vecchio Clint e il suo cecchino.
Il mondo è diviso in lupi, pecore e cani da pastore (quelli destinati a custodire il gregge), dice il padre al giovanissimo texano Chris Kyle. Questo è il mantra trasmesso da padre a figlio nell’infanzia: esistono alcune persone nate per proteggere e Chris è una di queste.
Nella testa l’obbligo della difesa dei deboli, nelle mani un fucile di alta precisione, negli occhi il mirino e la messa a fuoco dell’obiettivo nemico, questi sono gli input di una vita altrimenti ritenuta senza scopo.
Dopo una breve carriera da campione di rodeo texano, Kyle si arruola nei Navy Seals dopo aver assistito agli attentati alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam. Partendo per l’Iraq nel 2003, appena dopo essersi sposato con la bella Taya, Chris compie in totale quattro missioni facendosi notare come tiratore scelto per la sua fermezza e per la sua mira infallibile. Soprannominato “Leggenda”, diviene il cecchino con il più alto numero di uccisioni nella storia americana (160 vittime ufficiali) e tra le file nemiche viene messa una taglia sulla sua testa. Ma Kyle viene segnato per sempre dall’esperienza in Iraq: oltre alla guerra tra le linee nemiche, egli combatte un’altra battaglia in casa propria per essere un buon marito e un buon padre. 
Basata sull’autobiografia divenuta best seller scritta da Chris Kyle insieme a Scott McEwan e Jim DeFelice, la sceneggiatura di American Sniper (scritta da Jason Hall) ha compiuto un po’ di giri ed è passata per altre mani illustri (David O. Russell e Steven Spielberg), prima di arrivare sul tavolo di Eastwood. L’attore Bradley Cooper (anche produttore del film) aveva acquistato i diritti dell’autobiografia di Kyle ed era riuscito a parlare con l’eroe solo per pochi minuti al telefono, prima che morisse, nel febbraio 2013, a un poligono di tiro per mano di un reduce come lui affetto da sindrome post traumatica che stava cercando di aiutare. E forse era davvero una storia che aspettava Eastwood per diventare film.
Infarcito di convinzioni ferme come la legittimità dell’intervento militare in Iraq e dell’esistenza del male che va a tutti i costi estirpato, il film è plasmato interamente sul suo protagonista e intorno ai suoi incrollabili ideali. 
Una storia molto personale ma allo stesso tempo universale perché racconta di tutti i reduci di guerra, tra l’impatto di un campo di battaglia e il ritorno a casa, a una vita normale.
American Sniper è un dramma umano perfettamente nelle corde di Eastwood, una complessa esplorazione della natura di un uomo per il quale la violenza e la giustizia sono intrecciate indissolubilmente, un uomo che viveva secondo il semplice codice: Dio, Patria, Famiglia. Un codice che è stato sottoposto a severa revisione grazie all’impegno straordinario profuso per i Navy Seal. Un uomo molto innamorato della moglie ma anche fortemente dedito al senso del dovere verso il suo Paese. Nell’incipit Kyle, che con una mano tiene l’auricolare del telefono satellitare con cui la moglie gli parla e nell’altra aggiusta il mirino del suo fucile di precisione, inquadra una donna e un bambino (in procinto di lanciare una granata contro un tank statunitense) e li uccide entrambi. Nel finale il mirino è puntato attraverso i tetti di Sadr City dove, a distanza di quasi due chilometri, deve colpire il suo grande nemico, un sanguinario cecchino islamico.
La scelta di chiudere il film con il grandioso funerale di Kyle è perfettamente ‘eastwoodiana’: concludere con il destino, che è poi quello che domina le nostre vite, è l’idea sottesa a molti altri suoi film, il destino tragico e sarcastico, tutto il suo nonsenso. L’eroe era stato nell’inferno dell’Iraq ma era tornato; e la sua vita viene presa a casa sua, non laggiù, tra il fuoco nemico.
Le cose funzionano nel film fino a che il regista si concentra sul suo protagonista, un eroe che sceglie di esorcizzare i suoi traumi attraverso lo stesso oggetto, un fucile di precisione, che era una parte di lui (veniva da una famiglia di cacciatori) ma che lo ha portato a vivere un perenne stato di shock post-traumatico, insegnando a sparare a reduci tornati dalla guerra con pesanti handicap. Chris non compie un percorso di evoluzione perché ha sempre fatto ciò che credeva fermamente che fosse la cosa giusta, o meglio ciò che gli era stato fatto credere che fosse la cosa giusta.
Ma, quando si alza lo sguardo un po’ più su, arriva qualche nota dissonante: la deriva agiografica finale, anche se di glorificazione ‘combattuta’ e ‘problematica’ si tratta, pone qualche dubbio sulla completa riuscita dell’opera che resta, comunque, soprattutto nelle magistrali scene di guerra in Iraq, girata con passione e gran mestiere.
Il vecchio Clint, le cui simpatie repubblicane e la vena anti-obamiana sono state sempre chiare e dirette, è sinceramente convinto della legittimità e imprescindibilità degli interventi americani, nelle guerre di oggi come in quelle di ieri, ma è pur vero che il ‘suo’ eroe non è uno spaccone guerrafondaio, è un uomo che soffre di un’angoscia di fondo da cui è difficile emergere e che sfocia in un’incapacità di vivere una normale vita da civile, un uomo che sa bene che fermare un cuore che batte è una cosa enorme. Ed è questo lato umano che fa uscire il film dalla semplice indagine della natura di uomini che vivono del binomio indissolubile violenza-giustizia, è questo ‘male oscuro’ che rende comunque ‘unico’ il cecchino di Eastwood, cui offre volto e corpo (appositamente appesantito per il ruolo) uno straordinario Bradley Cooper già in odore di Oscar.

Elena Bartoni
 

 


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